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lunedì 22 gennaio 2024

Il culto di Mitra


Oggi tratteremo il culto di Mitra, un antico misterioso rito religioso che si diffuse nell'Impero Romano tra il I e il IV secolo d.C., ma con radici ancor più antiche. 

Mitra, il dio persiano della luce, era spesso raffigurato nell'atto di sacrificare un toro per liberarlo dal male, offrendo l'immortalità ai suoi seguaci al termine del mondo. Questa visione bellica della cosmologia e il carattere settario del culto contribuirono a guadagnarsi il favore delle legioni romane stanziate in Oriente, radicandosi principalmente in zone con una forte presenza militare, tra cui Roma, Ostia, Germania, Danubio, Bretagna, Gallia, Hispania e Africa.

Il mitraismo si distingueva per la sua dottrina, prevalentemente trasmessa attraverso immagini, rendendola accessibile a credenti di ogni ceto sociale, con l'esclusione delle donne. Nonostante il favore di alcuni imperatori romani, come Diocleziano, che riconobbe Mitra come protettore dell'impero nel 307 d.C., il culto non divenne mai parte dei riti pubblici e fu praticato da piccole comunità di iniziati nei mitrei, le strutture di culto sotterranee.

Nonostante alcune somiglianze apparenti con il cristianesimo, come la figura del sacrificio e della salvezza, le due religioni differivano profondamente nel messaggio divino: il cristianesimo era universale, mentre il mitraismo era fortemente settario.

L'accesso ai culti mitraici, noti come "misterici", richiedeva prove iniziatiche, e una volta superate, gli iniziati entravano in una struttura gerarchica divisa in sette ordini,  I sette gradi iniziatici, associati a divinità e corpi celesti, come Mercurio, Venere, Marte, Giove, Luna, Sole e Saturno, rappresentavano un percorso di progresso spirituale e specializzazioni rituali. 

Per le versioni più accreditate i sette gradi iniziatici erano:

Corax (il corvo; Mercurio)

Cryphius o Nymphus (l'occulto o lo sposo, Venere)

Miles (il soldato, Marte)

Leo (il leone, Giove)

Perses (il Persiano, Luna)

Heliodromus (il corriere del sole, Sole)

Pater (il Padre, Saturno).

Proprio la simbologia, la sua struttura iniziatica e l'accesso previsto solo agli uominie favorì a tal punto il legame tra i membri che la studiosa Jacqueline Champeaux si è spinta a definirla una sorta di «massoneria dell’antichità».

Le strutture di culto, chiamate mitrei, erano spesso sotterranee e caratterizzate da un'architettura specifica. Con l'ascesa del cristianesimo e la sua adozione come religione di stato alla fine del IV secolo d.C., il culto di Mitra scomparve gradualmente, ma lasciò un'impronta duratura evidenziata dalle numerose testimonianze archeologiche dei mitrei rinvenute in diverse regioni dell'Europa.


Foto tratta dal sito https://www.storicang.it/

mercoledì 10 dicembre 2008

Menenio Agrippa e la sua storia


La prima profonda frattura tra i patrizi (i discendenti dei patres, gli aristocratici ) e i plebei (dal greco plethos, gran numero o moltitudine) avviene in occasione d'una vittoriosa campagna contro i Sabini e gli Equi. Nonostante il parere contrario di Publio Valerio Publicola il Senato rifiuta di dividere bottino e terre con la multitudine di plebei, che avevano militato nell'esercitato: si scatena così la rivolta.
L'esercito, mantenuto in armi, si ritira sul Mons Sacer (il monte della maledizione) o sull'Aventino, attuando il primo caso di disobbedienza civile.

In questa situazione di stallo, senza apparenti vie d'uscita, emerse la figura di Menenio Agrippa, un uomo di origine plebee che era arrivato alcuni anni prima alla carica di console.

Menenio Agrippa con un discorso molto intenso e pieno di buon senso convinse i senatori ad affidargli l'incarico di trattare con i ribelli al fine di trovare un accordo che permettesse di ritrovare l'unita del popolo quirito contro i nuovi nemici. Nel suo discorso, oltre a perorare le ragioni del compromesso; Menenio, riconosceva la validità delle rivendicazioni della plebe e della loro scarsa fiducia nei confronti dei patrizi.

Arrivato al campo dei ribelli, alla testa della delegazione incaricata di portare avanti le trattativa, Menenio Agrippa cercò subito di convincere i secessionisti della concretezza del suo tentativo, invitandoli a formalizzare le loro richieste e garantendo che le stesse sarebbero state accettate dal Senato.I secessionisti rimasero colpiti dalle affermazioni perentorie di questo nuovo mediatore, ma la diffidenza accumulata in tanti anni di promesse e vessazioni continuava a prevalere. Nessuno diceva niente e qualcuno della delegazione cominciava a temere il peggio.

Fu proprio in quel frangente che Menenio Agrippa dimostrò tutta la sua arguzia, raccontando una storia

« Una volta le membra dell’uomo, constatando che lo stomaco se ne stava ozioso [ad attendere cibo], ruppero con lui gli accordi e cospirarono tra loro decidendo che le mani non portassero cibo alla bocca, né che, porto, la bocca lo accettasse, né che i denti lo confezionassero a dovere. Ma mentre intendevano domare lo stomaco, a indebolirsi furono anche loro stesse, e il corpo intero giunse a deperimento estremo. Di qui apparve che l’ufficio dello stomaco non è quello di un pigro, ma che, una volta accolti, distribuisce i cibi per tutte le membra, e quindi tornarono in amicizia con lui. Così senato e popolo, come fossero un unico corpo, con la discordia periscono, con la concordia rimangono in salute. »

Questa parodia voleva metteva in evidenza come nello Stato, alla stessa tregua del corpo umano, ognuno svolge una funzione importante e vitale e questo vale anche per i patrizi.

La secessione di una parte dello Stato rischiava di portare alla morte dello Stato e quindi anche delle sue componenti sociali.

Questa parodia convinse i ribelli ad accettare il compromesso che gli veniva offerto dal Senato Romano e insieme a Menenio Agrippa formalizzarono le loro richieste.

Si arrivò così all'istituzione dei tribuni della plebe, il cui scopo era quello di proteggere i plebei dagli abusi del potere. Erano due, venivano eletti esclusivamente dalla plebe e restavano in carica un anno.

La loro forza si basava su due principi essenziali: la loro inviolabilità e il popolo aveva il diritto di uccidere chiunque attentasse alla loro vita, e il diritto di veto che consentiva loro di invalidare qualsiasi provvedimento del Senato che andasse contro i diritti di quella parte maggioritaria di cui loro divenivano i legittimi rappresentanti. Le loro case dovevano restare aperte notte e giorno perché in ogni momento si potessero far valere i diritti violati di un plebeo.

Era il 494 a.C., un anno che entrò di diritto nella storia leggendaria di questa città attraverso una riforma che condizionò fortemente lo sviluppo degli avvenimenti di lì in avanti. Un anno che giustamente il popolo romano considerò sacro, come sacra era considerata la vita dei tribuni della plebe.

giovedì 20 novembre 2008

Clelia


Dopo aver scritto di Porsenna, re degli etruschi, oggi riporto la leggenda di Clelia, una giovane romana che dimostrò il suo coraggio nel periodo in cui Roma era assediata dal re straniero.


Gli Etruschi e i Romani avevano stipulato la pace ma Porsenna aveva chiesto nove fanciulle in ostaggio che puntualmente i Romani gli avevano consegnato. Le fanciulle ben presto scapparono dall’accampamento etrusco e si diressero verso il Tevere. Poiché non esisteva più il ponte Sublicio, demolito dai compagni di Orazio Coclite, Clelia, la ragazza che guidava il gruppo delle fuggitive, invitò le ragazze ad attraversare a nuoto il fiume.

Tutte si gettarono in acqua senza temere il freddo. Intanto le sentinelle romane le aveva avvistate e, credendo che fossero dei nemici, diede l’allarme, Condotte davanti ai consoli, furono rimandate a Porsenna per rispettare i patti. Porsenna interrogò Clelia che si era fatta avanti per dichiararsi colpevole di aver istigato le altre fanciulle a fuggire; ella rispose con fierezza alle domande affermando anche di non essersi pentita di ciò che aveva fatto e che anzi l’avrebbe di sicuro rifatto.

Il re restò ammirato dalla fierezza della ragazza e colpito dalla lealtà dei Romani per cui concesse a Clelia di ritornare a Roma e di portare con sé altre cinque ragazze. La sera stessa sei fanciulle poterono riabbracciare i genitori.

giovedì 30 ottobre 2008

Porsenna, re di Chiusi


Lars Porsenna re, o meglio lucumone, etrusco della città di Chiusi passato alla storia per il suo intervento militare contro Roma, secondo la tradizione in supporto del re di Roma Tarquinio il Superbo che era stato estromesso dal potere dalla proclamazione della repubblica.

Non esistono date certe per il suo regno ma la tradizione romana lo pone intorno alla fine del VI secolo a.C..

In quel periodo Roma si trovava in una fase di transizione verso la repubblica, Tarquinio il Superbo era stato cacciato dalla popolazione a causa dei continui abusi di potere, violenze e cattiva amministrazione. Esiliato, chiese appoggio a Porsenna che non esitò a muovere guerra contro Roma.

Secondo la leggenda romana, assediò Roma, ma, pieno di ammirazione per gli atti di valore di Orazio Coclite, di Muzio Scevola e di Clelia, desistette dal conquistarla, ritornando a Chiusi.

La leggenda è stata probabilmente creata ad arte dagli storici romani dell'età imperiale, Tito Livio e Tacito, per nascondere la disfatta romana contro gli etruschi di Porsenna; infatti secondo un'altra versione, più attendibile, egli invece occupò Roma e la dominò a lungo, secondo molti storiografi, il lucumone etrusco, pur non infierendo, costrinse la città a scendere a patti e non riconsegnò il trono a Tarquinio.

Da Plutarco veniamo a sapere che a Porsenna fu eretta una statua di rame in prossimità del senato e che la città dovette pagare decime per molti anni.

Anche Plinio il Vecchio lascia intendere, in Historia Naturalis XXXIV (“… in foedere quod expulsis regibus populo romano dedit Porsena, nominatium comprehensum invenimus, ne ferro nisi in agro culturam uterentur.”), che Porsenna proibì ai romani l’uso del ferro se non in agricoltura.

Gli accordi di pace furono in ogni modo molto favorevoli alla città, che poté mantenere il suo ordinamento repubblicano, ottenere la liberazione degli ostaggi e del Gianicolo in precedenza occupato dalle truppe etrusche.


per maggiori informazioni http://it.wikipedia.org/wiki/Porsenna

mercoledì 24 settembre 2008

Lucio Giunio Bruto



Continuo la serie di post sulla storia di Roma e dopo quello pubblicato il 2 luglio scorso riferito a Tarquinio il Superbo, continuo con Lucio Giunio Bruto (latino: Lucius Iunius Brutus; 545 a.C. circa-509 a.C.), personaggio assai noto, il cui nome è legato dall’epos alla caduta della monarchia in Roma e che fu anche citato da Dante nel limbo, nel IV canto dell'Inferno (Vidi quel Bruto che cacciò Tarquino)


Bruto guidò la sommossa che scacciò l'ultimo re, Tarquinio il Superbo, poiché il figlio di Tarquinio (Sesto Tarquinio) aveva violentato una parente di Bruto, Lucrezia.
Secondo Livio, nella sua opera ab Urbe Condita, Bruto aveva molti motivi di ostilità contro il re: fra loro era il fatto che Tarquinio aveva disposto l'omicidio del fratello, un potente senatore, che si era opposto all'assunzione del trono da parte di Tarquinio.
Bruto allora si infiltrò nella famiglia di Tarquinio impersonando la parte dello sciocco (in Latino brutus significa sciocco) e accompagnò i figli di Tarquinio in un viaggio all'oracolo di Delfi.
Essendo giunti a Delfi i figli di Tarquinio implorarono Apollo per indicare loro chi avrebbe regnato Roma e dal dio fu ascoltato questo responso: “Chi di voi per primo imprimerà un bacio alla madre avrà il sommo impero di Roma”.
Bruto sentita la risposta, interpretò correttamente le parole dell'oracolo, e cadde immediatamente come se fosse morto e diede di nascosto un bacio alla madre terra di tutti i comuni mortali.
Al ritorno a Roma, Bruto dovette combattere in una delle guerre senza fine di Roma contro le tribù vicine e tornò in città solo quando venne a sapere che Lucrezia aveva subito violenza. Lucrezia, credendo di essere stata disonorata si uccise.
Questo evento risultò essere la goccia che fece traboccare il vaso: Bruto allora istigò una rivolta popolare contro la monarchia, e Tarquinio e la sua famiglia furono cacciati in esilio.
C'è, comunque, una certa confusione sui particolari della vita di Bruto. Il suo consolato, per esempio, può essere un abbellimento successivo per dare alle istituzioni repubblicane maggior legittimità associandole alla cacciata dei re, come il racconto dell'esecuzione da parte di Bruto dei propri figli per aver mancato nelle loro funzioni militari può essere stata ugualmente un'invenzione successiva.
Il suo consolato termina durante una battaglia con gli Etruschi, che si erano alleati con i Tarquini per restaurare il loro potere a Roma.
Secondo la tradizione ebbe il suo consolato assieme a Lucio Tarquinio Collatino, il vedovo di Lucrezia.

mercoledì 2 luglio 2008

Tarquinio il Superbo

Lucio Tarquinio (conosciuto come Tarquinio il Superbo) (? - 496 a.C.) settimo ed ultimo re di Roma della dinastia etrusca dei Tarquini, regnò dal 535 a.C. al 510 a.C., anno in cui fu messo al bando da Roma.
Figlio di Tarquinio Prisco, sposò prima Tullia Maggiore, la figlia maggiore di Servio Tullio, poi sposò la sorella di questa, Tullia Minore, con il cui aiuto organizzò la congiura per uccidere il suocero ed ascendere sul trono di Roma.
Tito Livio ci racconta che Tarquinio un giorno si presentò in Senato e si sedette sul trono del suocero rivendicandolo per se; Tullio, avvertito del fatto, si precipitò nella Curia. Ne nacque un'accesa discussione tra i due, che presto degenerò in scontri tra le opposte fazioni; alla fine il più giovane Tarquinio, dopo averlo spintonato fuori dalla Curia, scagliò il re giù dalle scale. Servio, ferito ma non ancora morto, fu finito dalla figlia Tullia Minore che ne fece scempio travolgendolo con il cocchio che guidava.
A Tarquinio fu attribuito il soprannome di Superbo dopo che negò la sepoltura di Servio Tullio. Tarquinio assunse il comando con la forza, senza che la sua elezione fosse approvata dal Popolo e dal Senato romani, e sempre con la forza mantenne il controllo della città durante il suo regno.
A Tarquinio si fa discendere lo stratagemma con cui i romani conquistarono Gabi, dove mandò il proprio figlio Sestio che si fece accogliere in città dicendo di voler sfuggire alla tirannia del padre.
In verità il genitore ed il figlio agivano di comune accordo, dovendo il figlio recare discordia nella città nemica, tanto che questa per i contrasti sorti al suo interno si diede a Roma senza che fosse combattuta battaglia alcuna.
Preoccupato da una visione, un serpente che sbucava da una colonna di legno, il re organizzò una spedizione per Delfi in modo da ottenerne un'interpretazione del famoso oracolo; di questa spedizione fece parte anche Lucio Giunio Bruto, nipote del re, che celava i suoi veri pensieri fingendosi stolto, bruto appunto.
Dopo aver avuto il vaticinio richiesto dal re, la comitiva chiese anche chi sarebbe stato il prossimo re di Roma; il responso dell'oracolo, "Avrà in Roma il sommo imperio chi primo, o giovani, di voi bacerà la madre", fu compreso solo da Bruto, che tornato in patria sbarcando finse di cadere e baciò la madre terra.
In quel tempo Roma stava conducendo una guerra contro i Rutuli asserragliati nella città di Ardea; tutti i cittadini atti alle armi partecipavano all'assedio. In questo quadro si inserisce l'episodio di Lucio Tarquinio Collatino e di sua moglie Lucrezia, di cui si invaghì il figlio del re Sesto. Questi, lasciato il campo, tornò a Roma dove con l'inganno e la forza fece violenza a Lucrezia.
Il giorno seguente, la donna si recò nel campo militare dove si trovava il marito e dopo aver raccontato lo stupro si suicidò.
Sconvolti dall'accaduto e pieni d'odio per Tarquinio e la sua famiglia, Bruto e Collatino giurarono di non aver pace fino a quando i Tarquini non fossero stati cacciati dalla città.
Raccolto il cadavere della nobile donna, seguiti dai giovani seguaci, i due si diressero a Roma dove Bruto parlò alla folla accorsa nel Foro; il suo eloquio fu così efficace e trascinante, e la nefandezza di Sestio così grande, che riusci a smuovere l'animo dei propri cittadini, stanchi dei soprusi dei Tarquini, che proclamarono il bando dalla città del re e dei suoi figli mentre questi, avvertiti da dei seguaci, stavano tornando in città dal campo militare.
Tarquinio, messo al bando dalla città su cui regnava, trovò le porte della città sbarrate e perciò si rifugio a Cere; l'ex re non si diede per vinto, e tentò di restaurare il proprio regno con l'aiuto di Porsenna, a cui si alleò, e delle città latine avversarie di Roma.
Nonostante i successi ottenuti dal lucumone etrusco di Chiusi, Tarquinio non riuscì più a rientrare in città e morì in esilio.
A Roma intanto dopo la cacciata dei tarquini e la sconfitta di Porsenna veniva fondata la Repubblica: si trattava di una rivoluzione aristocratica che si inserisce però in un quadro politico di ridimensionamento della forza etrusca nella penisola. Gli etruschi stavano progressivamente perdendo le loro posizioni in Lazio e Campania a vantaggio di Latini e Greci ed è possibile che in questo contesto Roma abbia approfittato per liberarsi di Tarquinio il Superbo che, cacciato da Porsenna, veniva visto dall’aristocrazia come un dittatore tiranno.

lunedì 23 giugno 2008

Servio Tullio

Servio Tullio, il sesto re di Roma, secondo la tradizione regnò dal 578 a.C. al 535 a.C..
Servio, come attestato anche dal nome, era di umili origini; nacque infatti da una prigioniera di guerra (che si racconta fosse stata nobile nella sua città) ridotta a servire il focolare domestico del re Tarquinio Prisco.
Deve la sua fortuna a Tanaquil, moglie del re, che ne indovinò la futura grandezza e per questo gli diede in sposa la figlia ed alla morte del marito fece in modo che Servio gli succedesse come re di Roma.
Infatti, quando Tarquinio fu ucciso in una congiura, Tanaquil ne informò il popolo romano nascondendo la morte del re, dicendo invece che egli era rimasto ferito e che nel frattempo Servio Tullio ne sarebbe stato il reggente. Diede quindi modo a quest'ultimo di presentarsi come il naturale successore quando, solo in seguito al ristabilirsi della calma, venne comunicata la morte del re.
Fu l'autore della più importante modifica dell'esercito dell'epoca pre-repubblicana. Si rese conto infatti che per assicurare a Roma una forza militare sufficiente a mantenere le proprie conquiste era necessario un esercito più numeroso di quello che possedeva (un'unica legione di circa 3000 uomini, detto esercito romuleo).
Si impegnò quindi a favorire il reclutamento degli strati inferiori della società, fino ad allora esclusi dal servizio militare, segnando così il primo passo verso il riconoscimento politico di quella che solo grazie a questa riforma prenderà a chiamarsi plebe.
Roma continuò la sua politica di espansione territoriale, questa volta a danno delle città etrusche di Veio, Cere e Tarquinia; dopo alterne vicende i romani ebbero la meglio su queste città e ingrandirono il loro territorio verso nord.
Servio Tullio modificò la tradizionale ripartizione in tribù del popolo romano, che non tenne più conto dell'origine delle genti, ma che considerava come criterio di appartenenza il luogo di residenza. Vennero così create quattro tribù urbane (Suburana, Palatina, Esquilina, Collina) e diciassette tribù rustiche (extra-urbane); in questo modo, oltre a omogenizzare i cittadini romani, si poteva anche valutare il patrimonio dei singoli cittadini e quindi fissarne il tributo che questi dovevano versare alle casse dello stato, oltre che il censo, che ne determinava i diritti ed i doveri.
Servio Tullio fece costruire sull'Aventino il tempio a Diana, che corrisponde alla dea greca Artemide, il cui tempio si trovava ad Efeso, trasferendo da Ariccia il culto latino di Diana Nemorensis.
Come per i greci, per i quali il tempio di Artedimide rappresentava una federazione di città, con il tempio di Diana, costruito intorno al 540 a.C., i romani miravano a porsi come centro politico e religioso delle popolazioni del Lazio e forse anche dell'Etruria meridionale.
A Servio si ascrive anche la decisione di costruire il Tempio di Mater Matuta ed il Tempio della Dea Fortuna, entrambi al Foro Boario.
Servio Tullio fu ucciso da Tarquinio il Superbo che ebbe come complice la seconda moglie Tullia Minore, figlia minore di Servio; si tramanda infatti che Tarquinio, dopo aver provocato il re, gettasse questo giù dalle scale della Curia; il sovrano, ferito ma non ancora morto, fu quindi finito dalla figlia che gli passò sopra con un carro trainato da cavalli, mentre cercava di scappare dal foro.
Secondo un'antica tradizione la figura di Servio Tullio si identifica con quella di Mastarna, alleato di Celio Vibenna (o Vivenna), entrambi condottieri etruschi impegnati in spedizioni di conquista in Etruria e nei territori circostanti, e rifugiatisi, al termine di alterne vicende belliche, sul Monte Celio a Roma. Mastarna avrebbe poi ottenuto il regno e cambiato il nome, assumendo quello di Servio Tullio. Questa versione dei fatti fu oggetto anche di un famoso discorso al Senato dell'imperatore etruscologo Claudio (riportato nelle tavole di bronzo di Lione).
Gli storici, al di là degli aspetti leggendari del racconto, non escludono che possa avere qualche fondamento di verità, e portano a sostegno di questa ipotesi anche i famosi affreschi della Tomba François di Vulci che rappresentano in modo sorprendentemente realistico questo ciclo di racconti epici.

venerdì 30 maggio 2008

Tarquinio Prisco, V Re di Roma

Lucio Tarquinio Prisco (lat. Lucius Tarquinius Priscus), originario di Tarquinia in Etruria, quinto re di Roma secondo la cronologia di Tito Livio, che regnò tra il 616 a.C. e il 579 a.C..
Secondo la tradizione Lucio Tarquinio Prisco era greco per parte di padre (Demarato era originario della città greca di Corinto da dove era fuggito per stabilirsi poi a Taquinia) e a causa di questa ascendenza, e nonostante fosse ricco e noto in città, veniva osteggiato dai suoi concittadini e non riusciva ad accedere alle cariche pubbliche. Per questi motivi, e su consiglio di sua moglie Tanaquil, decise quindi di emigrare da Tarquinia a Roma, dove cambiò nome, dall'etrusco Lucumone al più latino Lucio Tarquinio detto poi Prisco per distinguerlo dall'ultimo re di Roma, Tarquinio il Superbo.
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Al suo arrivo a Roma, nei pressi del Gianicolo, dove arrivò a bordo di un carro, accadde un fatto eccezionale; un'aquila prima gli portò via il berretto, poi tornò indietro e lo fece cadere sulla sua testa. Tanaquil, che in quanto etrusca conosceva l'arte di intepretare i segni del cielo, interpretò questo fatto come il segno di future grandezze per il marito.
In città Tarquinio si fece conoscere per le sue qualità e per la sua generosità, tanto che Anco Marzio decise di conoscerlo e, conosciutolo, prima lo fece entrare tra i suoi consiglieri, poi decise di adottarlo, affidandogli il compito di proteggere i suoi figli.
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Alla morte del re, Tarquinio riuscì a farsi eleggere re dal popolo romano come figlio di Anco Marzio.
La sua abilità militare fu subito messa alla prova da un attacco sferrato dai Sabini; l'attacco fu respinto dopo sanguinosi combattimenti nelle strade della città. Fu in questa occasione che fu raddoppiato il numero di cavalieri, che ognuna delle tre tribù (Ramnensi, Tiziensi e Luceri) doveva fornire all'esercito.
Grazie alle numerose guerre riuscì a rimpinguare le casse statali con i ricchi bottini depredati alle città sconfitte.
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Si occupò anche dei giochi della città, erigendo il Circo Massimo e destinandolo come sede permanente delle corse dei cavalli; prima di allora gli spettatori assistevano alla gare che qui si svolgevano seduti da postazioni di fortuna.
In seguito a forti alluvioni, che interessarono specialmente le zone dove sarebbe sorto il futuro Foro Romano, fece poi iniziare la costruzione della Cloaca Massima. A lui si deve poi l'inizio dei lavori per la costruzione del tempio di Giove Capitolino sul colle del Campidoglio.
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Fu Tarquinio che per primo celebrò un trionfo in Roma, vestito con un abito dorato e di porpora su di un carro trainato da quattro cavalli e sempre a lui si deve l'introduzione in città di usanze tipicamente etrusche, relative alla sua posizione regale, come lo scettro, la toga purpurea, la sella curalis e i fasci littori.
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Nel frattempo, il maggiore dei figli di Anco Marzio, nella speranza di ottenere il trono che riteneva gli fosse stato usurpato da Tarquinio, organizzò un complotto nel quale il re etrusco trovò la morte. I suoi piani furono però frustrati dall'abile Tanaquil, che fece in modo che il popolo romano elegesse suo genero Servio Tullio come sesto re di roma e successore di Lucio Tarquinio Prisco.

martedì 13 maggio 2008

Muzio Scevola


Muzio Scevola (Mucius Scaevola), il cui vero nome era Muzio Cordo, è il protagonista di una famosa leggenda romana. Si narra che nel 508 a.C., durante l'assedio di Roma da parte degli Etruschi comandati da Porsenna, proprio mentre nella città cominciavano a scarseggiare i viveri, un giovane aristocratico romano, Muzio Cordo, propose al Senato di uccidere il comandante etrusco. Non appena ottenne l’autorizzazione, si infiltrò nelle linee nemiche e, armato di un pugnale, raggiunse l’accampamento di Porsenna, che stava distribuendo la paga ai soldati. Muzio attese che il suo obiettivo rimanesse solo e quindi lo pugnalò. Ma purtroppo sbagliò persona: aveva infatti assassinato lo scriba del lucumone etrusco.
Subito venne catturato dalle guardie del comandante, e, portato al cospetto di Porsenna, il giovane romano non esitò a dire: "Volevo uccidere te. La mia mano ha errato e ora la punisco per questo imperdonabile errore". Così mise la sua mano destra in un braciere dove ardeva il fuoco dei sacrifici e non la tolse fino a che non fu completamente consumata.
Da quel giorno il coraggioso nobile romano avrebbe assunto il nome di Muzio Scevola (il mancino).
Porsenna rimase tanto impressionato da questo gesto, che decise di liberare il giovane.
Muzio, allora, sfoggiò la sua astuzia e disse: "Per ringraziarti della tua clemenza, voglio rivelarti che trecento giovani nobili romani hanno solennemente giurato di ucciderti. Il fato ha stabilito che io fossi il primo, e ora sono qui davanti a te perché ho fallito. Ma prima o poi qualcuno degli altri duecentonovantanove riuscirà nell’intento". Questa falsa rivelazione spaventò a tal punto il principe e tutta l'aristocrazia etrusca da far loro considerare molto più importante salvaguardare il futuro del re di Chiusi piuttosto che preoccuparsi del destino dei Tarquini.
Sempre secondo la leggenda, così Porsenna prese la decisione di intavolare trattative di pace con i romani, colpito positivamente del loro valore.

mercoledì 7 maggio 2008

Orazio Coclite


Ho parlato alcuni post fa del ponte Sublicio. Al primo ponte della Storia costruito sul Tevere è affiancata la leggenda di Orazio Coclite (Latino: HORATIUS·COCLES).
L'eroe mitico romano del VI secolo (cocles: in Latino significa "con un solo occhio" - Plin. 11, 37) difese da solo il ponte che conduceva a Roma contro gli Etruschi di Chiusi guidati dal loro lucumone Porsenna.

Si narra che nel 508 a.C. riuscì ad arrestare l'avanzata degli Etruschi mentre i compagni demolivano il ponte Sublicio per impedire che i nemici passassero il Tevere.
Orazio Coclite occupò la parte finale di esso e resistette a tutta la schiera dei nemici con un'infaticabile battaglia, finché il ponte fu tagliato dietro le sue spalle e, si gettò nel Tevere armato, come vide la patria liberata dal pericolo imminente.
La sua forza suscitò l'ammirazione degli dei immortali, così che garantirono l'incolumità ad Orazio: infatti né agitato per l'altezza del salto né schiacciato dal peso delle armi, sano e salvo attraversò a nuoto il fiume.


Uno solo dunque tra tanti cittadini rivolse su di sè gli occhi di tanti nemici: infatti sia i nemici sia i Romani, mossi dal'ammirazione, tra la gioa e la paura guardarono, Orazio che nuotava.

mercoledì 30 aprile 2008

Il ponte Sublicio


Il Ponte Sublicio, il più antico di Roma, oltrepassava il fiume Tevere poco a valle dell'Isola Tiberina, in corrispondenza dell'antico guado che rappresentava una tappa obbligata del percorso nord-sud in epoca protostorica, ai piedi dell'Aventino. La sua costruzione è attribuita al re Anco Marzio (642 - 617 a.C.) da Tito Livio e da Dionigi di Alicarnasso.
Il nome deriva dal termine sublica, attribuito alla lingua volsca, con il significato di "tavole di legno".

Il ponte era infatti costruito originariamente interamente in legno e vi è legato il mitico episodio di Orazio Coclite, nei primi anni della repubblica romana. La tradizione religiosa (originata dalla necessità di poterlo smontare facilmente per esigenze di difesa) prescriveva che non fosse utilizzato altro materiale che il legno. Il ponte era considerato sacro (dal termine pons deriva la designazione di "pontefice" o pontifex) e vi si svolgevano cerimonie arcaiche, tra cui quella del lancio nel fiume degli Argei, o pupazzi di paglia (forse in sostituzione di più antichi sacrifici umani).
Il ponte subì frequenti restauri e ricostruzioni (60 a.C., 32 a.C., 23 a.C., 5 d.C., 69 d.C., sotto Antonino Pio e forse sotto gli imperatori Traiano, Marco Aurelio e Settimio Severo). Sulle raffigurazioni monetali di epoca imperiale compaiono alle estremità archi con statue.
Cospicue tracce del ponte sono state visibili nell'alveo del Tevere fino al 1890 circa, quando i resti furono completamente demoliti, nell'ambito delle misure di risistemazione del corso urbano del fiume, come misura di prevenzione delle piene.
Del ponte non resta oggi alcuna traccia, ma la sua ubicazione era all'altezza dell'odierna via del Porto, all'estremità settentrionale del complesso del S.Michele.

Dallo scomparso ponte romano deriva una denominazione del ponte Aventino (o Ponte di Testaccio), costruito più a valle nel 1919 su progetto di Marcello Piacentini.

lunedì 28 aprile 2008

Anco Marzio, IV re di Roma


Anco Marzio, anche Marcio (latino Ancus Marcius) (640 a.C.-616 a.C.), fu il quarto Re di Roma e l'ultimo di origine sabina, appartenente all'antica gens Marcia, probabilmente leggendario.
Come Numa Pompilio, ritenuto suo nonno, era amante della pace e della religione, ma fu obbligato a fare la guerra per difendere i suoi territori. Sconfisse i Latini ed insediò un certo numero di loro sull'Aventino e nella Valle Murcia, creando così il primo nucleo della Plebe romana.
Fortificò il Gianicolo, gettò il primo ponte di legno sul Tevere, il Ponte Sublicio, fondò il porto di Ostia collegandola a Roma con la Via Ostiense, stabilì le saline e costruì una prigione.
A lui si fa discendere la definizione dei riti che dovevano essere seguiti dai Feciali perché la guerra dichiarata ai nemici non dispiacesse agli dei e potesse essere quindi una "guerra giusta".
Anco Marzio sarebbe soltanto un duplicato di Numa, come si potrebbe dedurre dal suo secondo nome, Numa Marzio, dal confidente e pontefice di Numa, non essendo niente altro che Numa Pompilio stesso, rappresentato come sacerdote. L'identificazione con Anco è indicata dalla leggenda che indica quest'ultimo come un costruttore di ponte (pontifex), il costruttore del primo ponte di legno sopra il Tevere. È nell'esercizio delle sue funzioni sacerdotali che la somiglianza è mostrata più chiaramente. Come Numa, Anco Marzio morì di morte naturale. Gli successe Tarquinio Prisco.

venerdì 11 aprile 2008

Orazi e Curiazi


Secondo la versione riportata da Tito Livio (Hist. I, 24-25), durante il regno di Tullo Ostilio (VII secolo AC) Roma ed Alba Longa entrarono in conflitto, affrontandosi con gli eserciti schierati lungo le Fossae Cluiliae (sull'attuale via Appia Antica), al confine fra i loro territori.

Roma ed Albalonga condividevano attraverso il mito di Romolo una sacra discendenza che rendeva empia questa guerra, perciò i rispettivi sovrani decisero di affidare a due gruppi di rappresentanti le sorti del conflitto fra le due città, evitando ulteriori spargimenti di sangue.
Furono scelti per Roma gli Orazi, tre fratelli figli di Publio Orazio, e per Albalonga i tre gemelli Curiazi, che si sarebbero affrontati a duello alla spada.


Iniziato il combattimento, quasi subito due Orazi furono uccisi, mentre due dei Curiazi riportarono solo lievi ferite; il terzo Orazio, che non avrebbe potuto affrontare da solo tre nemici, vistosi in difficoltà pensò di ricorrere all'astuzia e finse di scappare verso Roma. Come aveva previsto, i tre Curiazi lo inseguirono, ma nel correre si distanziarono fra loro.
Per primo fu raggiunto dal Curiazio che non era stato ferito e, voltandosi a sorpresa, lo trafisse. Ripreso che ebbe a correre, fu inseguito dagli altri due Curiazi, che però, essendo feriti, si stancarono notevolmente e gli fu facile, uno alla volta, ucciderli.
La vittoria dell'Orazio fu la vittoria di Roma, cui Albalonga si sottomise.

Camilla Orazia, sorella dell'Orazio superstite, era promessa sposa di uno dei Curiazi uccisi, e rimproverò violentemente del delitto il fratello, tanto che questi la uccise per farla tacere. Per purificarsi, offrì poi un sacrificio a Giunone Sororia, divinità tutelare della sorella. Inoltre per il processo al delitto di 'perduellio' (tradimento contro lo Stato) di cui si era macchiato l'uccisore dei Curiazi e di Camilla Orazia, Tullio Ostilio istituì giudici appositi: i 'duumviri perduellionis'. Le parentele erano ulteriormente intrecciate, secondo versioni successive della leggenda, essendo Sabina sorella di uno dei Curiazi e moglie di Marco Orazio.
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L'affresco che ho pubblicato si trova ai Musei Capitolini nella sala degli Orazi e dei Curiazi creato da Cavalier d'Arpino (Giuseppe Cesari 1568-1640).

venerdì 4 aprile 2008

Tullo Ostilio

Tullo Ostilio (lat. Tullus Hostilius) (secondo la tradizione 673 a.C. - 641 a.C.) fu il terzo dei leggendari Re di Roma, appartenente alla Gens Hostilia, che dovrebbe essere ricompresa tra le cento gentes originarie ricordate da Tito Livio.
Le sue guerre vittoriose con Alba Longa, Fidene e Veio indicano le prime conquiste del territorio latino e il primo allargamento del dominio romano oltre le mura di Roma. Fu durante il suo regno che avvenne il combattimento fra Orazi e Curiazi, i rappresentanti di Roma e di Alba Longa.
Si dice che morì colpito da un lampo come punizione per il suo orgoglio.
Tullo Ostilio va considerato semplicemente come il duplicato di Romolo. Entrambi sono eletti fra i pastori, continuano la guerra contro Fidene e Veio, aumentano il numero dei cittadini, organizzano l'esercito e spariscono da terra in una tempesta.
L'evento distintivo di questo regno è la distruzione di Alba Longa, che può essere considerato come un fatto storico.
Tullo Ostilio fu scelto dai senatori perché era un romano e perché suo nonno Osto Ostilio aveva combattuto con Romolo contro i Sabini. Dopo la morte di Numa Pompilio lo spirito di pace sembrò indebolirsi.
Tullo Ostilio si impegnò anche in una guerra contro i Sabini; fu durate il suo regno che fu costruita la Curia Hostilia, che divenne il luogo deputato alle riunioni dei senatori, che prima di allora si riunivano all'aperto, nell'area del Foro che in seguito sarebbe stata utilizzata per i Comizi.
La leggenda dice che Tullo era così occupato con una guerra dopo un'altra che aveva trascurato ogni servizio verso le divinità. Una peste terribile si abbatté sui Romani. Anche Tullo ne fu colpito. Pregò Giove per avere il suo favore ed il suo aiuto. La risposta del dio fu un fulmine che venne giù dal cielo, bruciò il re e ridusse la sua casa in cenere.
Ciò fu visto dai Romani come un'indicazione di scegliere meglio il nuovo re, un re che seguisse l'esempio pacifico di Numa Pompilio e scelsero Anco Marzio, il nipote di Numa Pompilio.

sabato 29 marzo 2008

Numa Pompilio


Numa Pompilio, di origine sabina, regnò tra il 715 a.C. e il 674 a.C. (anno in cui morì ottantenne) succedendo come re di Roma a Romolo.

L'incoronazione di Numa non avvenne immediatamente dopo la scomparsa di Romolo, alla cui morte il governo della città passò invece ai Senatori (interrex), in un tentativo di sostituire la monarchia con una oligarchia. I Senatori, incalzati dal sempre maggiore malcontento popolare, furono però costretti ad eleggere un nuovo re.

Per l'elezione proposero Numa Pompilio, appartenente alla Gens Pompilia, che abitava nella città sabina di Cures Sabini ed era sposato con Tazia, figlia di Tito Tazio (nato addirittura nel giorno in cui Romolo fondò la città eterna), molto noto in città come uomo di provata fede ed esperto conoscitore delle leggi divine, da cui gli derivò l'appellativo di Pius.
Inizialmente contrario ad accettare la proposta dei senatori, Numa vi acconsentì solo dopo che furono presi gli auspici degli dei, che gli si dimostrarono favorevoli; Numa fu quindi eletto re per acclamazione da parte del popolo. Morirà ottantenne, ricordato con affetto dai romani, anche per non aver mai condotto alcuna guerra.

Il popolo gli dedicò un mausoleo sul Gianicolo. Dopo la bellicosa esperienza del regno di Romolo, Numa Pompilio seppe con la sua saggezza fornire un saldo equilibrio alla nascente città.
Nel Foro costruì la Regia e lungo la Via Sacra fece edificare il Tempio di Giano, le cui porte potevano essere chiuse solo in tempo di pace; affidò all'ordine sacerdotale dei Salii, da lui stesso istituito, il compito di dichiarare il tempo di pace e di guerra (per gli antichi romani il periodo per le guerre andava da marzo ad ottobre), mentre all'ordine dei flamini affidò il culto della Triade Capitolina.

Scelse le prime vergini Vestali della città, assegnando a queste uno stipendio e la cura del tempio in cui era custodito il fuoco sacro della città.

Nominò anche il primo pontefice di Roma, cui spettava il compito di vigilare sull'applicazione di tutte le prescrizioni di carattere sacro.
A lui viene ascritta anche una riforma del calendario, basato sui cicli lunari, che passò da 10 a 12 mesi (355 giorni), con l'aggiunta di gennaio, dedicato a Giano, e febbraio che furono posti alla fine dell'anno, dopo dicembre (l'anno iniziava con il mese di marzo). Il calendario contenenva anche l'indicazione dei giorni fasti e nefasti, durante i quali non era lecito prendere alcuna decisione pubblica.
Sempre secondo la tradizione antica, le decisioni più difficili, erano frutto di consigli fatti al re da parte della ninfa Egeria, sottolineando così il carattere sacrale di queste decisioni.

venerdì 21 marzo 2008

Tito Tazio


Tito Tazio non viene normalmente citato nell'elenco dei sette re di Roma che paradossalmente sono, a pieno diritto, otto.

Tazio diventa re di Roma in affiancamento al fondatore, Romolo. Non venne eletto come accadde a Numa Pompilio, non prese il potere con un colpo di stato come Servio Tullio. Tito Tazio era già re prima di venire coinvolto nella storia di Roma.

Secondo quanto narrato da Tito Livio in "Ab Urbe condita libri" il rapimento delle fanciulle (ratto delle Sabine) da parte dei giovani romani scatenò le guerre con i centri vicini.

Qui si cominciano a notare le capacità di Tito Tazio che Livio cita per la prima volta come regem sabinorum, re dei sabini.

Mentre i romani sconfiggono via via i ceninensi, gli antemnati e i crustumini, Tazio trattiene i sabini facendo mostra di voler risolvere la questione con calma.


Tazio corrompe una vergine Vestale, Tarpeia, figlia del comandante della rocca Spurio Tarpeio, e conquista il Campidoglio.

Nella successiva battaglia, ancora una volta Tazio si tiene in disparte. L'eroe della giornata è il sabino Mettio Curzio, il cui nome verrà dato al Lacus Curtius, sito occupato ora dal Foro Romano.E, naturalmente, le eroine sono le rapite sabine che si gettano fra i contendenti e li fermano supplicando dinon spargere - suoceri e generi - empio sangue, a non macchiare con un parricidio i loro nati, nipoti per quelli, figli per questi.

Tito Tazio accetta di buon grado la pace ma viene pattuita anche la fusione dei due popoli. Il regno diventa uno solo. Da allora i due re esercitarono il potere non solo in comune ma anche in perfetta concordia. Tazio si stabilì con il popolo sabino sul Quirinale mentre i romani rimasero sul Campidoglio.


Questa è forse la mitizzazione di una conquista o almeno di una predominanza sabina in Roma. Tanto più credibile se si osserva che come re successore fu eletto un sabino, Numa Pompilio.


Ma Tazio è anche, indirettamente la causa di una minaccia di guerra con i laurenti, gli abitanti di Lavinio. Qualche anno dopo la composizione del regno, infatti, alcuni parenti di Tazio maltrattarono gli ambasciatori dei laurenti che fecero appello al diritto delle genti.

Tazio non se ne diede per inteso e, pur in qualità di re, appoggiò i consanguinei.

Il castigo divino non tardò a venire: mentre era a Lavinio, intento a un solenne sacrificio fu sorpreso dagli avversari e ucciso. Anche in questo caso, come un dantesco contrappasso, il diritto delle genti non venne onorato.

lunedì 10 marzo 2008

Il ratto delle Sabine


Le vicende più antiche della storia di Roma sono avvolte dalla leggenda.
Lo storico Tito Livio (59 a.C. - 17 d.C.), nella sua monumentale storia di Roma, raccoglie molti di questi racconti tradizionali, in cui mito, rituali arcaici ed eventi storici sono spesso intimamente legati. Uno degli episodi più celebri è costituito dal "Ratto delle sabine".

"Romolo, dopo aver fondato Roma, si rivolge alle popolazioni vicine per stringere alleanze e ottenere delle donne con cui popolare la nuova città. Al rifiuto dei vicini risponde con l'astuzia; organizza un grande spettacolo per attirare gli abitanti della regione e rapirne le donne.

Arrivò moltissima gente, tra cui i Sabini che vennero al completo, con tanto di figli e consorti.

Quando arrivò il momento previsto per lo spettacolo e tutti erano concentratissimi sui giochi, allora, come convenuto, scoppiò un tumulto e la gioventù romana, a un preciso segnale, si mise a correre all'impazzata per rapire le ragazze.

Molte finivano nelle mani del primo in cui si imbattevano: quelle che spiccavano sulle altre per bellezza, destinate ai senatori più insigni, venivano trascinate nelle loro case da plebei cui era stato affidato quel compito.

Finito lo spettacolo nel terrore, i genitori delle fanciulle fuggono affranti, accusandoli di aver violato il patto di ospitalità e invocando il dio in onore del quale eran venuti a vedere il rito e i giochi solenni, vittime di un'eccessiva fiducia nella legge divina.
Romolo in persona si aggirava tra di loro e le informava che la cosa era successa per l'arroganza dei loro padri che avevano negato ai vicini la possibilità di contrarre matrimoni; le donne, comunque, sarebbero diventate loro spose, avrebbero condiviso tutti i loro beni, la loro patria e, cosa di cui niente è più caro agli esseri umani, i figli.
Che ora dunque frenassero la collera e affidassero il cuore a chi la sorte aveva già dato il loro corpo. Spesso al risentimento di un affronto segue l'armonia dell'accordo. Ed esse avrebbero avuto dei mariti tanto migliori in quanto ciascuno di par suo si sarebbe sforzato, facendo il proprio dovere, di supplire alla mancanza dei genitori e della patria.
A tutto questo si aggiungevano poi le attenzioni dei mariti (i quali giustificavano la cosa con il trasporto della passione), attenzioni che sono l'arma più efficace nei confronti dell'indole femminile. "

Tito Livio, Ab Urbe condita libri , lib. I, capoverso 9


In seguito i popoli vicini combatterono contro Roma per riprendere le proprie donne, ma furono sconfitti; i sabini, invece, guidati da Tito Tazio, agirono con più calma ed astuzia e alla fine la guerra fra romani e sabini fu fermata dalle stesse donne rapite, che intervennero pregando le parti di non versare il sangue dei parenti dei propri figli (nonni e zii i sabini, padri i romani).
In seguito a questo nacque un'alleanza ed i sabini si stabilirono sul colle del Quirinale. Così per un periodo, Roma ebbe due Re: Romolo e Tito Tazio (che stranamente non viene contato fra i "sette" Re di Roma).

lunedì 18 febbraio 2008

La fondazione di Roma

Romolo e Remo, dopo aver restituito a Numitore il trono di Alba Longa, ottengono il permesso di andare a fondare una nuova città, nel luogo dove sono cresciuti.
Romolo vuole chiamarla Roma ed edificarla sul Palatino, mentre Remo la vuole battezzare Remora e fondarla sull'Aventino.
È lo stesso Livio che riferisce le due più accreditate versioni dei fatti: "Siccome erano gemelli e il rispetto per la primogenitura non poteva funzionare come criterio elettivo, toccava agli dei che proteggevano quei luoghi indicare, attraverso gli auspici, chi avessero scelto per dare il nome alla nuova città e chi vi dovesse regnare dopo la fondazione. Così, per interpretare i segni augurali, Romolo scelse il Palatino e Remo l’Aventino. Il primo presagio, sei avvoltoi, si dice toccò a Remo. Dal momento che a Romolo ne erano apparsi il doppio quando ormai il presagio era stato annunciato, i rispettivi gruppi avevano proclamato re l’uno e l’altro contemporaneamente. Gli uni sostenevano di aver diritto al potere in base alla priorità nel tempo, gli altri in base al numero degli uccelli visti. Ne nacque una discussione e dal rabbioso scontro a parole si passò al sangue: Remo, colpito nella mischia, cadde a terra.
È più nota la versione secondo la quale Remo, per prendere in giro il fratello, avrebbe scavalcato le mura appena erette [più probabilmente il pomerium, il solco sacro] e quindi Romolo, al colmo dell’ira, l’avrebbe ammazzato aggiungendo queste parole di sfida: «Così, d’ora in poi, possa morire chiunque osi scavalcare le mie mura.» In questo modo Romolo s’impossessò da solo del potere e la città appena fondata prese il nome del suo fondatore.
La città è quindi fondata sul Palatino, e Romolo diventa il primo Re di Roma.

lunedì 4 febbraio 2008

Romolo e Remo


La monumentale Ab Urbe condita, grandiosa ricostruzione della storia romana, voleva essere un tributo all’impero al culmine della sua potenza e della sua gloria, in piena età augustea.

Nel solco della tradizione del genere storiografico classico, alle notizie storicamente fondate e documentate Tito Livio affianca resoconti leggendari e fantastici, come quello che riferisce della nascita dei due gemelli Romolo e Remo, i mitici fondatori di Roma: figli della vestale Rea Silvia e del dio Marte, vengono affidati al Tevere per ordine del re di Alba Longa, l’usurpatore Amulio; scampati alle acque, sono allattati dalla lupa e infine trovati dal mandriano Faustolo e allevati dalla moglie di questi Acca Larenzia.
Ma era destinato dai fati, io credo, che dovesse sorgere sì grande città e che avesse così inizio l’impero più potente subito dopo quello degli dèi.
La Vestale, essendole stata fatta violenza e avendo dato alla luce due gemelli, sia che ne fosse realmente convinta, sia perché meno disonorevole apparisse una colpa di cui era responsabile un dio, attribuisce a Marte la paternità della sua illegittima prole. Ma né gli dèi né gli uomini sottraggono lei e la sua prole alla crudeltà del re: la sacerdotessa, in catene, viene imprigionata; quanto ai bimbi, egli ordina che siano gettati nella corrente del fiume. Per un caso che ha del divino il Tevere, che era straripato dilagando in placidi stagni, non permetteva di accostarsi fino al letto normale del fiume, mentre dava ai portatori la speranza che i bimbi potessero ugualmente venir sommersi dalle acque, per quanto inerti esse fossero.
E così, convinti di aver eseguito l’ordine del re, espongono i bimbi nella più vicina pozza, nel punto in cui oggi si trova il fico Ruminale, un tempo detto, a quanto si racconta, Romulare. V’erano allora in quei luoghi vaste lande deserte.

Persiste ancora la tradizione che, quando le acque poco profonde lasciarono in secco l’ondeggiante canestro nel quale i bimbi erano stati abbandonati, una lupa assetata, scesa dai monti circostanti, fu attratta dai loro vagiti; che essa, abbassatasi , offrì le sue poppe ai piccini con tanta mansuetudine, che il mandriano del re – dicono si chiamasse Faustolo – la trovò nell’atto di lambire i bimbi con la lingua; che costui li portò nelle sue stalle e li affidò da allevare alla moglie Larenzia.

Alcuni pensano che codesta Larenzia, per aver spesso prostituito il suo corpo, tra i pastori fosse chiamata lupa: da ciò sarebbe venuto lo spunto per questa straordinaria leggenda.

Nati e allevati in tal modo, non appena furono cresciuti negli anni, pur non mostrandosi inattivi nella cura delle stalle e degli armenti, amavano errare cacciando per le selve. Perciò, irrobustiti nel corpo e nell’animo, non affrontavano più soltanto le fiere, ma assaltavano i ladroni carichi di preda distribuendo il bottino fra i pastori, e insieme con loro, mentre di giorno in giorno s’accresceva la schiera dei giovani, attendevano alle occupazioni e agli svaghi.

Tito Livio, Storia di Roma dalla sua fondazione

mercoledì 23 gennaio 2008

Enea e Rea Silva


Dopo la fuga da Troia, Enea giunse nel Lazio e venne accolto dal re Latino, ne sposò la figlia Lavinia e fondò la città di Lavinio (l'odierna Pratica di Mare).

Dopo trent'anni, Ascanio, figlio di Enea, fondò una nuova città, Alba Longa, sulla quale regnarono i suoi discendenti.

Molti anni dopo uno di questi, Numitore, fu spodestato dal fratello Amulio, il quale, per evitare che potessero nascere eredi legittimi, costrinse la figlia di Numitore, Rea Silvia, a farsi vestale. Rea Silvia fu posseduta con la forza dal dio Marte, in un bosco sacro dove era andata a prendere dell'acqua. Dall'unione nacquero due fratelli gemelli: Romolo e Remo.

Per ordine dello zio, la madre fu mandata a morte, come prevedeva la legge per le vestali che non rispettavano il voto di castità (sepolta viva). I figli le vennero tolti per essere uccisi, come tutti i figli illegittimi o indesiderati.

Il servo incaricato non ebbe cuore di farlo e li affidò alla sorte deponendoli in una cesta che lasciò scorrere sulle acque del Tevere verso un miglior destino. Per le piogge recenti il fiume era straripato ed aveva allagato i campi nella zona del Velabro. La cesta coi due bambini si arenò in una pozza e, quando le acque del fiume si ritirarono, la cesta rimase all'asciutto ai piedi di un albero di fico (il ficus ruminalis). Altre fonti fanno coincidere il punto dove si fermò la cesta con i gemelli con una collocata alla base del Palatino, detta "Lupercale" perché sacra a Marte e a Fauno Luperco.

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