lunedì 4 febbraio 2008

Romolo e Remo


La monumentale Ab Urbe condita, grandiosa ricostruzione della storia romana, voleva essere un tributo all’impero al culmine della sua potenza e della sua gloria, in piena età augustea.

Nel solco della tradizione del genere storiografico classico, alle notizie storicamente fondate e documentate Tito Livio affianca resoconti leggendari e fantastici, come quello che riferisce della nascita dei due gemelli Romolo e Remo, i mitici fondatori di Roma: figli della vestale Rea Silvia e del dio Marte, vengono affidati al Tevere per ordine del re di Alba Longa, l’usurpatore Amulio; scampati alle acque, sono allattati dalla lupa e infine trovati dal mandriano Faustolo e allevati dalla moglie di questi Acca Larenzia.
Ma era destinato dai fati, io credo, che dovesse sorgere sì grande città e che avesse così inizio l’impero più potente subito dopo quello degli dèi.
La Vestale, essendole stata fatta violenza e avendo dato alla luce due gemelli, sia che ne fosse realmente convinta, sia perché meno disonorevole apparisse una colpa di cui era responsabile un dio, attribuisce a Marte la paternità della sua illegittima prole. Ma né gli dèi né gli uomini sottraggono lei e la sua prole alla crudeltà del re: la sacerdotessa, in catene, viene imprigionata; quanto ai bimbi, egli ordina che siano gettati nella corrente del fiume. Per un caso che ha del divino il Tevere, che era straripato dilagando in placidi stagni, non permetteva di accostarsi fino al letto normale del fiume, mentre dava ai portatori la speranza che i bimbi potessero ugualmente venir sommersi dalle acque, per quanto inerti esse fossero.
E così, convinti di aver eseguito l’ordine del re, espongono i bimbi nella più vicina pozza, nel punto in cui oggi si trova il fico Ruminale, un tempo detto, a quanto si racconta, Romulare. V’erano allora in quei luoghi vaste lande deserte.

Persiste ancora la tradizione che, quando le acque poco profonde lasciarono in secco l’ondeggiante canestro nel quale i bimbi erano stati abbandonati, una lupa assetata, scesa dai monti circostanti, fu attratta dai loro vagiti; che essa, abbassatasi , offrì le sue poppe ai piccini con tanta mansuetudine, che il mandriano del re – dicono si chiamasse Faustolo – la trovò nell’atto di lambire i bimbi con la lingua; che costui li portò nelle sue stalle e li affidò da allevare alla moglie Larenzia.

Alcuni pensano che codesta Larenzia, per aver spesso prostituito il suo corpo, tra i pastori fosse chiamata lupa: da ciò sarebbe venuto lo spunto per questa straordinaria leggenda.

Nati e allevati in tal modo, non appena furono cresciuti negli anni, pur non mostrandosi inattivi nella cura delle stalle e degli armenti, amavano errare cacciando per le selve. Perciò, irrobustiti nel corpo e nell’animo, non affrontavano più soltanto le fiere, ma assaltavano i ladroni carichi di preda distribuendo il bottino fra i pastori, e insieme con loro, mentre di giorno in giorno s’accresceva la schiera dei giovani, attendevano alle occupazioni e agli svaghi.

Tito Livio, Storia di Roma dalla sua fondazione

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