martedì 5 febbraio 2008

pater familias

La patria potestas era intesa come il potere, genericamente illimitato, che il pater familias, esercitava sui membri della propria famiglia: essi non erano solamente i figli, ma anche tutti i discendenti in linea maschile.

Le discendenti femmine rimanevano nella potestà del pater fintantoché non si sposavano, entrando perciò nella famiglia, e quindi in potere, del pater della famiglia a cui apparteneva il marito. Erano in potestà del pater anche le donne sposate attraverso un apposito rituale, tipico del diritto arcaico, la conventio in manu ma già dall'epoca repubblicana tale rito matrimoniale cominciò a passare in secondo piano, a favore di unioni che lasciassero alla donna una maggiore libertà patrimoniale, in linea con la mutata posizione femminile nella società romana (la quale comunque fu sempre sottoposta a limitazioni di vario tipo, anche dal punto di vista giuridico).

Anche gli schiavi erano sottoposti alla potestà del pater (la dominica potestas), in una condizione per alcuni aspetti simile a quella dei figli (sempre esaminando la questione dal punto di vista giuridico-patrimoniale).

Dal punto di vista giuridico la patria potestas infatti implicava che solo il pater familias potesse essere titolare di rapporti patrimoniali, quindi alienare od acquisire beni, in termini moderni, solo il pater era un soggetto di diritti (per quanto riguarda il profilo privatistico), possedendo solamente egli la capacità giuridica.

L'appartenenza alla famiglia, e quindi la sottoposizione al pater, comportava la piena sottomissione a questi, ma d'altraparte concedeva le aspettative successorie ed eventualmente i vantaggi dell'appartenenza ad un gruppo. I poteri del pater erano teoricamente illimitati e tuttavia moderati nel tempo da un controllo sociale e dai mutamenti dei rapporti endofamiliari, vero una concezione più umanista, incentrata attorno alla pietas.

In particolare, fu dall'epoca imperiale che i sovrani tesero ad avocare allo Stato le misure più duramente repressive. Costantino oltre ad aver affermato che il diritto di vita e di morte (ius vitae ac necis) appartiene al passato (emanò una constitutio che equiparava l'uccisione del figlio al crimine del parricidio. Inoltre è dello stesso periodo la condanna a morte per l'uccisione degli infanti, tranne che per i nati deformi (C.Th. 9.14.1). Sempre nel Codice Teodosiano è possibile trovare un passo che riconduce il potere del pater ad un semplice diritto di correzione (ius corrigendi), che non può mai sfociare in punizione di particolare gravità, le quali richiedono l'intervento del giudice:

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