Il fotoreportage di guerra è antico come la fotografia e il “miliziano” di Bob Capa ha dietro di sé un secolo di pionieri.
Trai primi l’italiano Stefano Lecchi che, macchina e cavalletto lignei in spalla, ben prima dell’avvento dell’istantanea, documenta nel 1849 l’assedio di Roma temporaneamente repubblicana.
Per due mesi, dal 15 novembre fino al 15 gennaio 2012, il Museo di Roma a Palazzo Braschi presenta per la prima volta quest’eccezionale testimonianza di narrazione per immagini agli albori della fotografia: 35 carte salate da calotipia, il grosso della serie conservata alla Biblioteca di Storia Moderna e Contemporanea, costituita da 41 fotografie.
Le calotipie di Lecchi, naturalmente, non si limitano a documentare ma – come sempre accade in fotografia – esprimono un modo di vedere la realtà, una sensibilità peculiare, una precisa “storicità”: evidente, in questo caso, l’influenza dei generi pittorici allora in voga, specialmente del vedutismo così praticato nella Roma ottocentesca da artisti italiani e nordeuropei.
Un orientamento percettivo, prima ancora che stilistico, che è pure conseguenza del limite tecnico: l’impossibilità di congelare il movimento, l’obbligo di “posa”, impediscono la ripresa della guerra nel suo farsi e spostano l’attività del fotografo sulle conseguenze dell’azione: terreni spaccati dallo scavo di trincee, fossati, facciate dirute per i colpi d’artiglieria. Nelle foto di Lecchi – molto usate, all’epoca, come base per elaborare dipinti e litografie con scene della Repubblica Romana – c’è il “vacuum”, l’abbacinata desolazione che caratterizza in genere la primissima fotografia romana. Un deserto surreale, che scongiura tra l’altro ogni possibile caduta nella retorica.
Pure tecnica, essenzialmente, è la ragione di una certa aura onirica nelle fotografie di Lecchi: la carta salata, metodo che consentiva la riproduzione in più copie, aveva però l’inconveniente del materiale fibroso e scarsamente omogeneo, con il formarsi di immagini morbide e alonate, meno nitide dei dagherrotipi.
A Palazzo Braschi, poi, si tenta l’experimentum del doppio: alle antiche immagini di Lecchi sono accostate fotografie scattate nell’estate 2011 da Marcello Benassai, Andrea Sabbadini e Lorenzo Scaramella sugli stessi luoghi ripresi da Lecchi, con le stesse inquadrature dove possibile. Una mostra da vedere senza fretta, assecondando la rara opportunità di guardare il 1849 con gli occhi del 1849.
Dal sito www.comune.roma.it
3 commenti:
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